Welfare
Da San Vittore: Nazir, la sua solitudine e quelle ali dangelo
La testimonianza del suicidio di un giovane detenuto marocchino.
Si parla spesso di suicidi in carcere, si danno le cifre, le percentuali, ogni anno il Dipartimento di amministrazione penitenziaria raccoglie i dati dei cosiddetti ?eventi critici?. Poi ci sono le singole carceri, dove si contano gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio, si sottopongono a ?osservazione? i detenuti che si ritengono a rischio, si cerca in qualche modo di tamponare una situazione, che il sovraffollamento rende sempre più pesante. Però di chi si suicida in carcere dovremmo almeno ricordare il nome e qualche pezzetto della sua storia, a partire da come lo ricordano i suoi compagni, gli unici in grado di dire qualcosa a proposito di persone che altrimenti resterebbero senza una faccia e un nome. Quella che segue è la notizia del suicidio di Nizar, un marocchino di vent?anni, avvenuto qualche mese fa ma raccontato di recente, dai detenuti di San Vittore sul giornale Facce e maschere.
Ornella Favero (ornif@iol.it)
Giovedì 28 novembre, nello svegliarci, abbiamo sentito un odore diverso. In carcere le giornate si sentono dall?odore. Del resto, basta pensare a questo muro che ci chiude da ogni parte e ci impedisce di guardare oltre, per capire come il senso dell?odorato possa ben sostituire quello della vista. Quella mattina, non so perché, l?odore era diverso. Non saprei descriverlo, so solo che impediva di respirare a pieni polmoni, come il presentimento di qualcosa di grave che fosse accaduto nella notte. Alcune ore dopo, arrivava nelle varie sezioni la voce che un detenuto, un nostro compagno, si era tolto la vita impiccandosi in cella. Abbiamo cominciato a porci le prime domande. Prima di tutto, chi fosse.
Quando abbiamo saputo che era un ragazzo marocchino di vent?anni, molti di noi hanno provato un brivido sotto la pelle. Subito dopo, ci siamo chiesti perché l?aveva fatto. Gli mancavano, si diceva, soltanto 4 mesi alla libertà. Abbiamo poi saputo che Nizar, questo il suo nome, era in isolamento, cioè sotto osservazione. E allora è venuto spontaneo chiedersi come avesse potuto portare a termine quell?ultimo, estremo gesto sfuggendo ai controlli. Qualcuno suggeriva, riferendosi alla sua provenienza dal Marocco, che «forse aveva bisogno di parlare con qualcuno perché era successo qualcosa alla sua famiglia». Probabilmente, aggiungeva qualcun altro, era in carcere per la prima volta e, quindi, aveva bisogno di maggiori attenzioni. Forse Nizar aveva soltanto bisogno di essere ascoltato. Di uscire dal suo doppio stato di emarginazione, come detenuto e come extracomunitario, sentire qualcuno esprimergli solidarietà e appoggio morale. Non ti conoscevamo, amico Nizar, ma ti abbiamo dedicato il nostro spettacolo. Preparandomi per la recita, ho guardato a lungo le ali d?angelo, un costume di scena. Quelle ali che hai utilizzato davvero per volare lontano e che nessuno ormai potrà più toglierti.
Ciro Di Stefano
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